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L’intervento del presidente provinciale dell’ANPI Giulio Ghidotti al 70° anniversario della strage di Valle Dorizzo, martedì 7 ottobre 2014

9 Ottobre 2014 //  by ANPI Brescia

Buongiorno a tutte e tutti. Grazie per la vostra presenza.

È un onore essere qui con voi come Presidente provinciale dell’ANPI bresciana a portarvi il caloroso saluto dei circa quattromila tesserati che rappresento e per ricordare i civili ed i partigiani della banda Dante, brutalmente assassinati in questi luoghi il 6 ottobre di settant’anni fa, i nomi dei quali sono riportati sulla targa che abbiamo di fronte. Una delle tante stazioni di quell’infinita “via crucis laica” costituita dai venti mesi della lotta di liberazione: con lapidi, cippi e monumenti che anche nella nostra provincia, segnano strade e piazze come promemoria e come monito della violenza e della brutalità metodica e sistematica del fascismo e testimoniano di quanto alti siano stati in termini di sacrifici umani i costi per recuperare una prospettiva di vita dignitosa per tutti e per tutte noi.  Segni della presenza feroce e disumana dell’ideologia fascista, che sono lì a mostrarci come il fascismo italiano non sia stato e non sia quella cosa da operetta che molti tendono a rappresentare per nascondere le responsabilità storiche di italiani ed italiane sia nello scatenare i dispositivi di morte di cui quel regime si è servito per imporsi, sia per adeguarvisi facendo finta di niente. Dobbiamo quindi riconoscenza anche a Dante e Erminio Scalvini e ai loro compagni che da subito, fin dall’8 settembre, certo a loro modo e facendo spesso di testa loro, con le loro contraddizioni ed i loro slanci, capirono e scelsero però la parte giusta da cui stare, prima con l’aiuto ed il sostegno a “sovversivi” e “antifascisti”, a “disertori” e “renitenti”, “fuggiaschi” italiani e stranieri verso la Svizzera e poi via, via come “banda” combattente nello scontro con i nazifascisti. Loro ribelli che, bisognosi di tutto – alimenti, indumenti, informazioni, armi – avevano avuto il coraggio e la dignità di disobbedire, con tutti i rischi del caso, agli ordini del dispositivo politico-militare fascista della RSI occhiuto e onnipresente, soprattutto in zone come queste prossime alle proprie sedi di direzione. Un apparato crudele e implacabile contro i sovversivi, apparentemente invincibile soprattutto dopo che si era messo sotto le ali protettrici e padronali del dominio nazista.

Siamo qui, allora, per esprimere, anche dopo tanti anni, il nostro sentito omaggio ai Caduti e la nostra vicinanza ed il nostro sdegno, alle loro famiglie e ai loro discendenti, ai sopravvissuti, e all’intera comunità di Valle Dorizzo per l’oltraggio subito all’inizio di ottobre del ’44 dall’azione brutale dei nazisti e dei fascisti. Una ferita ancora non del tutto rimarginata e per certi versi ancora pulsante quella inferta alle comunità ed alle famiglie anche in ragione delle inevitabili polemiche e recriminazioni che incrinarono il tessuto sociale di queste valli a seguito degli eventi di quel tragico giorno, e alle divisioni di giudizio circa la presenza e le azioni della Banda Dante in questi luoghi. Con una patina d’oblio lasciata cadere su uomini, presenze e vicende relative a questo gruppo partigiano. Allora un grazie riconoscente anche alle donne ed agli uomini dell’Associazione familiari Caduti della valle Dorizzo e dello SPI – Cgil che hanno riportato alla luce la storia della Banda Dante e che instancabilmente, testardamente direi, continuano in modo ammirevole ad organizzare in questi luoghi la memoria storica mettendo in pratica le parole “Stufissa mia” testamento di Lino Pedroni, partigiano Modroz nella 122^, Presidente provinciale ANPI, che ricordiamo a nove mesi dalla sua scomparsa. D’altro canto la propaganda nazifascista si muoveva per attribuire la responsabilità morale degli eccidi ai partigiani, indicati come la causa del propagarsi della violenza contro i civili. Così la pratica della strage voleva essere lo strumento, allo stesso tempo brutale e sottile, per spingere la popolazione a mutare il suo atteggiamento di prevalente complicità con la Resistenza, in un nuovo atteggiamento di totale ostilità verso i partigiani. Quando, viceversa, violenza, ferocia e brutalità individuali e di gruppo di fascisti e nazisti erano legittimate e possibili all’interno proprio di quella precisa strategia politico-militare del terrore che il nazifascismo adottò nei confronti delle popolazioni italiane, una strategia capace di sfociare rapidamente in ripetuti massacri. Riferendosi solo al bresciano, quelli di Cevo agli inizi di luglio, e a Bovegno a ferragosto avevano preceduto solo di poche settimane questo nella Valle Dorizzo. Non a caso proprio nell’estate del ’44, proprio quando, anche nelle Valli bresciane i ribelli, i banditi, gli sbandati della prima ora, a cui si erano aggiunti negli ultimi mesi coloro che sfuggivano ai bandi della RSI, stavano vivendo quella fase che gli storici oggi definiscono di passaggio dall’essere “renitenti”, “ribelli” a “resistenti”, a “partigiani” grazie al lavoro organizzativo di CLN locali e regionali, a quello di commissari politici e inviati militari mandati “da fuori” per strutturare e coordinare con grande fatica quelle che fino allora erano state soprattutto “bande” spontanee. Sforzi non sempre coronati da successo, come si verificò con le diverse “bande”, presenti e attive in queste zone, e per questo in condizioni di fragilità estrema ed esposte a rischi estremi di fronte alla repressione nazifascista.

Ma è l’attualità con le sue urgenze e spesso con le sue indecenze, come sempre, ad indirizzare lo sguardo al passato e a colorare i sentimenti suscitati dal rapporto col passato stesso. Allora come non riandare dal luogo in cui ci troviamo, luogo di lotta e di martirio, di generosità e di imprevidenze, alle parole di Calamandrei, che spesso ripetiamo senza troppo riflettere sui loro riferimenti alla realtà? Come non tener conto che nella lotta partigiana e in esperienze come quelle vissute dalle popolazioni nella Valle del Caffaro si siano poste le basi di quella Costituzione del ’48, eredità e patrimonio civile che le generazioni della resistenza hanno passato a quelle successive? Non se lo dimentichino il nesso originario tra resistenza e Costituzione, nella fretta del fare, anche coloro che, senza mandato esplicito degli elettori e con dubbia legittimità istituzionale, nel nome della governabilità e dell’emergenza economica, ma in assenza di provvedimenti efficaci in campo occupazionale, stanno invece mettendo mano troppo disinvoltamente al patrimonio civile, etico, morale che abbiamo ereditato dalla stagione più bella della nostra storia, grazie ai successi dei Partigiani e dei Combattenti per la libertà, e grazie alla dedizione di quei caduti che onoriamo anche oggi. Si tenga ben conto che fu la Resistenza e la lotta antifascista come quelle combattute anche in questi luoghi a innescare e legittimare il processo democratico che ha portato alla Costituzione del ’48, e a rendere possibile l’alto compromesso scaturito dall’incontro/confronto tra le principali correnti della cultura italiana e dell’antifascismo, quella socialista e marxista, quella cattolica e quella liberaldemocratica, unite nel CLN attorno all’idea di fondare con la Costituente una nuova democrazia. Una Costituzione quindi che dovrebbe essere ancora attuata nella sua sostanza, prima che stravolta con una riforma come quella approvata in prima lettura al senato che con la concentrazione dei poteri nelle mani del capo dell’esecutivo, a scapito del Parlamento e delle istituzioni di garanzia, apporta alla Costituzione del ‘48 mutamenti radicali, squilibrando il sistema di pesi e contrappesi che i costituenti, memori dell’esperienza fascista, avevano delineato per scongiurare il pericolo della dittatura della maggioranza. Il tutto a sancire il trionfo di trent’anni e passa di pensiero unico neoliberista, coi relativi principi antidemocratici in campo economico e sociale a sostituire quelli costituzionali e con la sovranità del libero mercato che subentra a quella del popolo di cittadine e cittadini. Come se ridurre di numero i senatori (ma non i deputati), o evitarne l’elezione popolare, come se passando da una democrazia parlamentare ad una democrazia del “premierato assoluto”, possa salvare l’economia italiana, favorire la pace in Europa e nel mondo. Infatti sarebbe opportuno che tra tanto parlare a vanvera, qualcuno ci chiarisse in modo convincente come la Costituzione così riformata contribuirà a diminuire il debito pubblico, a trovar lavoro ai giovani, ad arrestare corruzione ed evasione fiscale, a rilanciare formazione e ricerca, a incentivare le imprese, l’economia e la cultura, a tutelare il paesaggio, l’ambiente e il patrimonio artistico. Inoltre che ci si dicesse come con l’Italicum, la nuova legge elettorale, s’intenda riconquistare alla democrazia i milioni di italiani che non hanno votato, piuttosto che incentivare l’astensionismo purché un partito ottenga il premio di maggioranza.

Allora ci chiediamo: vale la pena dilapidare l’eredità della stagione più bella della storia italiana recente svilendo la Costituzione in un abbraccio mortale con un politico condannato in via definitiva ed espulso dal Senato? Per noi il governo ed il Paese acquisterebbero maggior prestigio e credibilità interna ed internazionale contro populismi, neofascismi e neonazionalismi comunque camuffati, se i nostri governanti mostrassero nei fatti di ricordarsi dei diritti dei cittadini sanciti proprio dalla Costituzione del ‘48 e dimenticati dalle loro politiche con la scusa della crisi. Non sono diritti secondari: sono il diritto al lavoro per tutti i cittadini (art. 1 e 4), la funzione sociale della proprietà (art. 42), la pari dignità sociale dei cittadini e la loro eguaglianza (art. 3), la garanzia per tutti di «un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36), il diritto alla cultura (artt. 9, 21, 33), il diritto alla salute (art. 32), il diritto alla convivenza pacifica tra le nazioni (art.11). Diritti ignorati o taglieggiati in nome della crisi economica e di una emergenza infinita. Vedete, l’ultimo Congresso ha affidato all’ANPI l’oneroso compito di essere “coscienza critica” del Paese. Ma che significa “coscienza critica” se non osservare la situazione sociale, quella politica e istituzionale con occhi imparziali e distaccati, formulando valutazioni sulla base del solo metro che abbiamo, cioè la Costituzione ed i suoi principi? Altrimenti tradiremmo noi stessi. E le parole, oggi le mie, risuonerebbero false ed insopportabilmente retoriche alle nostre stesse orecchie prima che a quelle di chi ascolta. Con la consapevolezza che criticare e denunciare i rischi non significa entrare nel gioco dei partiti, compito non nostro, bensì ribadire la necessità di avere sempre come punto di riferimento la Costituzione democratica ed antifascista frutto ed eredità della lotta di liberazione, il testamento di centomila morti che la Resistenza ci ha consegnato.

“Poche cose ci chiedono i nostri morti. – diceva tra l’altro Calamandrei – Non dobbiamo tradirli!”

Quindi la critica e la denuncia mi sembra il minimo che dobbiamo ai Partigiani, soprattutto a tutti i Caduti per la libertà. Per non tradire un’altra volta Dante e Erminio, Guido, Placido, Giuseppe e Vincenzo, Giacinto, Valter, Giacomo e Paolo, affinché le loro sofferenze, le loro morti continuino ad essere l’altissimo costo pagato per l’inizio di un mondo più giusto, libero e lieto e non la fine di sogni e progetti perché rese inutili da politiche e da riforme costituzionalmente inaccettabili. Col loro esempio nel cuore e la Costituzione del ‘48 in mano cercheremo di essere all’altezza.

Viva i partigiani e gli antifascisti, viva la Costituzione antifascista della Repubblica italiana, viva la Resistenza.

____________________________

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