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Relazione della vice presidente dell’ANPI di Brescia Bruna Franceschini al consiglio provinciale, sabato 13 aprile

17 Aprile 2013 //  by ANPI Brescia

Per anni, durati il lungo ventennio berlusconiano, l’anniversario della Liberazione, la festa più bella per gli italiani, è stata ignorata dal capo del governo. Secondo lui il fascismo non aveva ucciso nessuno, tutt’al più mandava qualcuno in villeggiatura.

Nessuna meraviglia, dunque, se per la capogruppo grillina al Parlamento il fascismo, prima di esistere, non era poi tanto male: vuol dire che molti giovani non conoscono il significato di questa ricorrenza e ignorano la Storia dell’Italia e del mondo contemporanei.

Tanto più che la scuola della riforma Moratti ha ripristinato i vecchi programmi, non incentrati sul Novecento, come aveva voluto Berlinguer ministro. Cosicché un bambino può arrivare a terminare la quinta elementare conoscendo la storia fino all’impero romano e ignorando quella dei suoi nonni o bisnonni.

Spetta dunque anche a noi dell’ANPI andare nelle scuole e in tutte le sedi possibili per sconfiggere l’oblio e contrastare la svalutazione di un’esperienza, quella resistenziale, che ha segnato l’affermazione di principi umani universali e la fine della guerra. La più immane delle guerre sulla faccia della terra, che, con i campi di sterminio, ha visto la cosiddetta civiltà occidentale toccare il fondo dell’aberrazione. La Resistenza ha permesso la riconquista della dignità nazionale, dopo che gli Italiani l’avevano persa accordando al fascismo un consenso di massa: assoggettandosi alle leggi fascistissime, accettando il bavaglio della stampa, inchinandosi alle leggi razziali, esultando all’invasione della Libia e dell’Etiopia, affiancandosi all’intervento nazista in Spagna, ignorando l’invasione dell’Albania….

E, quando poi, da palazzo Venezia, il 10 giugno 1940, Mussolini annunciò la dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra, la piazza oceanica esplose di gioia. Come tutte le piazze d’Italia, collegate con palazzo Venezia e gremite di scolaresche. In quella di Brescia, all’ombra del Bigio, c’era anche Romano Colombini, ma non esultò, uscì dal suo manipolo per mettersi in disparte: per questo fu schiaffeggiato dall’insegnante e trascinato alla casa del fascio.

Erano ragazzini e giovani educati alla bella morte, una generazione di guerrieri addestrati al combattimento, come i rot vailer. Creature di otto, dieci anni, costrette a cantare “verrà quel di verrà, che la gran madre degli eroi ci chiamerà”, dopo avere giurato di eseguire gli ordini del duce “se necessario col sangue”. Indotti a credere, obbedire e combattere senza esitare, senza discutere, perché, era scritto sul testo unico, dalle Alpi alla Sicilia: Mussolini ha sempre ragione.

Espropriati del pensiero e della capacità critica, milioni di giovani furono mandati al macello, seguendo il pifferaio come i topi della favola.

La guerra però non è una passeggiata, per chi è in prima linea: male equipaggiati e male guidati, gli italiani, invasa l’Albania, credevano di spezzare le reni alla Grecia, di abbattere l’orso sovietico, invece furono sonoramente sconfitti. Andarono per suonare e furono suonati: e finalmente aprirono gli occhi. Quelli che non morirono di fuoco, di fame o di freddo nelle steppe russe, si resero conto dell’inganno e, tornati, non vollero più accettare di combattere a fianco dei nazisti. Alleati sprezzanti. Racconta Nuto Revelli che il comando italiano aveva comunicato ai tedeschi che avrebbe inviato un corpo specializzato di autieri, senza però dire che erano autieri senza automezzi. Quando i tedeschi lo constatarono, li mandarono al fronte a piedi: 1200 chilometri.

Curzio Tridenti racconta, nel libro “Dalla Russia ai Berici”, che un tedesco gli sferrò un colpo di frustino alla mano, mentre porgeva un limone a una donna russa che gli chiedeva la carità. Lui, che era partito al grido di “O Mosca o morte”, cominciò a chiedersi se erano andati per liberare i russi dal comunismo o per annientarli. Quando si rese conto della realtà, alla prima licenza disertò e si arruolò con i partigiani. Anche i soldati di leva si rifiutarono di arruolarsi nella RSI, nonostante i bandi di Graziani e di Almirante, che minacciavano di fucilare sul posto i disertori. Molte migliaia di quelli che nel 1941 avevano invaso la Jugoslavia, passarono nelle file dei partigiani di Tito, pur di non combattere al fianco degli ustascia e dei nazisti o di finire il campo di concentramento.

Mentre quelli della nuova leva obbligatoria si imboscarono renitenti o salirono in montagna.

Per questo l’esercito della RSI, composto da 100.000 militi, era per il 90 per cento formato da corpi speciali, da “compagnie di ventura” senza freni e limiti, bande di fanatici efferati, impiegate in azioni repressive anti partigiane. Seminando terrore. Altro che “ragazzi di Salò”: solo il 10 per cento era mosso da spirito da spirito di fedeltà al duce o costretto dalle circostante e dalla paura di ritorsioni. Le diserzioni erano comunque numerose e per questo il regime, a un certo punto, ricorse alle riserve delle scuole superiori (lo racconta Lino Pedroni, studente del Moretto, che con altri del “Fronte della gioventù” aveva organizzato il sabotaggio al reclutamento: segnalato al questore, è salito in brigata, diventando partigiano della 122^ Garibaldi. A quindici anni).

E le ragazze? Per lungo tempo il loro contributo è stato sottaciuto dalla storiografia resistenziale. Eppure fu massivo, importante. Determinante, come sosteneva lo stesso Boldrini.

Loro non erano costrette a scegliere tra i bandi e la Resistenza: però scelsero di farla, senza poi chiedere nulla. Senza essere poi riconosciute, nonostante avessero il nome di battaglia.

Lo fecero per oblatività innata, per maternage, ma anche per consapevolezza nuova. Per rifiuto della guerre e dei soprusi, ma anche per una più o meno conscia ribellione a un mondo che le voleva relegate nel ruolo di moglie docile e madre feconda. Spirito che animò anche quelle che decisero di farsi ausiliarie della RSI: “Volevo fare di più che aspettare e curare malati”, avrebbe confessato una, a Miriam Mafai. Il tema dell’onore era al centro della scelta di queste 6000 donne, ben diversa dalla scelta delle 35.000 partigiane riconosciute, in realtà molte di più, che decisero di essere contro, in nome del cambiamento, della libertà. Dell’umanitarismo.

Etica della convinzione a parte, bisogna tuttavia dire come l’arruolamento tra le ausiliarie (e tra i “ragazzi di Salò”) comportasse dei notevoli vantaggi economici e logistici. Congrui stipendi, calde divise, letti asciutti, docce tiepide, armi. Mentre ai partigiani freddo, fame, pidocchi e sporcizia. Le armi se le dovevano procurare.

La maggioranza delle donne, tuttavia, si mise con i partigiani, attuando quella che si è chiamata una Resistenza senza armi: nutrendo, curando, nascondendo, portando messaggi, tacendo, non denunciando …

“Le donne non ci vogliono più bene”- cantavano i fascisti, come ricorda Lidia Menapace – “perché portiamo la camicia nera”

Ribaltando il concetto di onore e di eroismo tradizionalmente inteso, sottraendosi al fascino delle divise fiammanti alla Liala, le donne solidarizzarono con gli anti eroi, gli imboscati, i renitenti, senza divise se non i fazzoletti rossi, azzurri, verdi…vestiti alla bell’e meglio, laceri e straccioni.

Oltre alle partigiane e alle staffette, erano 70.000 nei gruppi di difesa delle donne, a fornire un supporto indispensabile ai combattenti o alle loro famiglie.

Tra tutte, ricordiamo Camilla Cantoni Marca e le Massimille di don Vender, che portavano il cibo e i messaggi ai carcerati, Rosi Romelli, salita col padre in brigata a 14 anni, trascinata con la madre in cella in via Trieste, malmenate entrambi, non parlarono. Mentre oggi Rosi è molto contenta di parlare ai giovani della sua esperienza, senza retorica, con umiltà. Dolores Abbiati , dopo dieci anni di confino di polizia con i genitori, dove era stata compagna e allieva di Parri, Rosselli, Lussu, Pertini, Terracini, Spinelli, Ravera e tanti altri, a 16 anni entrò nella Resistenza.

Sono storie che la Storia l’hanno fatta, non se la sono vista passare sotto il naso. E meritano di essere narrate per gratitudine, per testimoniare ai giovani di oggi che si può, dato che è stato possibile. Che non ci si deve rassegnare all’ingiustizia.

Ricordando che l’età media dei partigiani era di 23 anni, vuol dire che molti erano adolescenti: facciamone allora dei nomi: oltre a Romano Colombini e Aldo Prete (studenti uno del liceo, l’altro dell’Istituto tecnico), Franco Pellacini (operaio diciottenne della Breda). Lo stesso Bruno Gheda, vice comandante della 122^ Garibaldi, aveva vent’anni quando è caduto sul Sonclino.

Le loro storie ci fanno capire che in determinate circostanze bisogna scegliere.

E che si può scegliere, perché loro non erano dei super eroi, con doti superiori, ma ragazzi e ragazze, uomini e donne come tanti. Esempi praticabili. Imitabili. Modelli ancora validi.

 

La rivisitazione faziosa della lotta di liberazione ha cercato di riabilitare il fascismo, di minimizzarne le colpe, mettendo sullo stesso piano i partigiani e le brigate nere. Col risultato di legittimare la RSI. Mentre si sta provando a fare di Salò una nuova Predappio, esibendo gadget mussoliniani nelle bancarelle di fronte al Vittoriale, altrove si sono ricollocati busti di podestà, istituiti premi letterari (qualche anno fa se ne è istituito uno in nome di Almirante. Con la cerimonia di premiazione avvenuta in diretta televisiva su RAI 1).

Si sono fatti tentativi di intitolare strade a Mussolini. Per non parlare del monumento a Graziani, il boia di Addis Abeba, criminale di guerra e firmatario di uno dei bandi della RSI.

Oggi si vuole anche riesumare una vecchia statua, simbolo dell’era fascista. L’operazione non sarebbe in sé così scandalosa, come dice lo stesso Cazzullo in un equilibrato articolo apparso di recente, ma quando a volerlo fare è una giunta in odore di fascismo, l’operazione puzza.

Su diversi siti internet si procede ad una esaltazione nostalgica del regime. Casa Pound apre sedi in città e provincia.

Il fatto è che si è messo in atto un processo di rimozione, che confida soprattutto nell’ignoranza della storia e in una attenuazione della memoria, sottacendo i costi che l’Italia ha dovuto pagare durante il ventennio: guerre coloniali disastrose per le casse dello stato, una guerra mondiale che ha mandato allo sbaraglio 2 milioni di giovani male equipaggiati e mal nutriti, 200.000 caduti, 170.000 mutilati, internati nei campi di concentramento, città devastate dai bombardamenti, popolazione alla fame: erano spariti i gatti, dopo si mangiavano anche i topi.

Facendo dimenticare i massacri perpetrati dagli “italiani brava gente”: in Libia (100.000 morti di fame, sete e malattie in campi di concentramento nel deserto della Sirte), in Etiopia (200.000 massacrati, anche con armi chimiche), i sistematici bombardamenti di Barcellona (altro che Guernica!), i cui abitanti erano costretti a vivere nei sotterranei del sistema fognario (3500 morti), le stragi nella Jugoslavia (gli ustascia entrarono in Zagabria con le divise italiane e con licenza di uccidere indiscriminatamente; Robotti mandava circolari come “si ammazza troppo poco” e Roatta “non dente per dente, ma testa per dente”; villaggi incendiati, case saccheggiate; i maschi dai 16 ai 60 fucilati)

E Mussolini che dice: “basta con le minchionerie evangeliche” e “padri a casa nostra, lì assassini, ladri, stupratori”.

 

Spetta a noi ricordare tutto questo, perché non si verifichi ancora. Ricordare senza retorica, perché non sembrino cerimonie fine a se stesse, da spolverare una volta all’anno e poi riporre. Cerimonie tra vecchi, estranee ai giovani, al loro modo d’essere e di comunicare.

Raccontare la storia e le storie della Resistenza come esempi concreti di scelte di vita. Non come gesta di eroi omerici, puri e senza macchia. Sbagliavano anche loro, però erano dalla parte giusta.

Uomini e donne comuni, pieni di difetti ma anche di virtù umane, come scrive Eros Sequi, un intellettuale italiano che sarebbe diventato preside della facoltà di italianistica a Belgrado e che, dopo l’8 settembre, ha scelto di combattere con i partigiani di Tito. Il suo diario si intitola “Eravamo in tanti”. Infatti erano tantissimi, 40.000, gli italiani che hanno fatto la scelta di combattere contro altri italiani, per difendere un Paese non loro, in nome dell’internazionalismo e per distinguersi da quegli italiani che seminavano odio e stragi: “Quante di queste stragi e di queste rovine – scrive Sequi, nel suo diario – portano nome degli italiani? Gli italiani sono buoni, gli italiani non sanno essere cattivi e barbari, e così via. E’ un po’ la convinzione diffusa. E invero, anche gli italiani non sarebbero cattivi, non sarebbero bestie.

Ma i tronconi di muri, i focolari dispersi al vento e il sangue di tanta gente, colpevole solo di essere nata serba o croata e di amare la libertà, mi pesano sul mio nome di italiano come una coscienza sporca di delitti”.

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